L’epoca della moltitudine
Luglio – Agosto 2010 – Negli ambienti della cultura del progetto è da tempo che non si parla più di politica. Ma, forse, possiamo dire che non si parla più neppure di cultura. In questo momento, tutte le attività Creative – progettuali o artistiche – si sono trasformate in pratiche ‘professionali’ che si collocano fuori da responsabilità civili dirette, cui l’ambientalismo fa da paravento.
Il è caratteristico di un’epoca di transizione profonda: alcuni filosofi – come ad esempio Paolo Virno – stanno affrontando una riflessione comparativa tra due concetti sociali contrapposti: quello di ‘popolo’ e quello di ‘moltitudine’. Due categorie nate durante il XVII secolo ma che possono fornire chiavi di interpretazione del presente, con importanti ripercussioni sulle categorie su cui si basa la progettazione territoriale. La nozione di ‘popolo’ fu elaborata dal filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) e identifica per la prima volta il consorzio umano in strutture territoriali, in istituzioni statali, in tradizioni antropologiche; nella sua visione politica vi era una radice pessimista, tipica del Rinascimento, che vedeva la società costituita da soggetti violenti (sua è la definizione Homo homini lupus), a cui solo l’istituzione di Stati nazionali poteva porre rimedio: quindi, quanto più forte era lo Stato, tanto più sicura era la società. Il filosofo spagnolo Baruck Spinoza (1632-1677) elaborò invece il concetto di ‘moltitudine’, dove il consorzio umano non si formalizza in istituzioni statali, ma permane come un insieme informe di singoli individui, la cui unità si ricompone in entità politiche sopraterritoriali e non in strutture di governo locale. Da Hobbes deriva quindi la tradizione tipica del XX secolo degli Stati nazione, dello Stato centralizzato, dello Stato fabbrica, fino al conflitto tra stati, nazioni, blocchi. Realtà tutte, oggi, grandemente in crisi nel mercato globalizzato.
Dalla tradizione di Spinoza deriva invece l’idea delle grandi alleanze sopra-nazionali come l’Europa unita, lo stesso socialismo, fino all’attuale economia globalizzata, al lavoro diffuso postfordista, all’economia virtuale. Nel primo caso, la struttura urbana garantisce tutte le condizioni di difesa dell’individuo dai pericoli di una società ingovernabile: città istituzionali, proprietà privata, luoghi perimetrati, fondamenta stabili e definitive, specializzazioni funzionali.
Nella seconda ipotesi la ‘moltitudine’ come uno sciame creativo, supera confini e fondazioni, sfuma le competenze rigide, crea circuiti sopraterritoriali. Realtà molto simili alle condizioni (negative e positive) dell’attuale capitalismo globalizzato, dove – come dicono Michael Hardt e Antonio Negri – Non c’è più un fuori. Il modello di Hobbes, rigido e specializzato, dimostra oggi tutta la sua fragilità e rischia di spezzarsi di fronte alle crisi ricorrenti dell’economia locale e internazionale; il modello di Spinoza ispira invece una intrinseca flessibilità e capacità di adattamento per gestire positivamente lo stato di crisi permanente dell’economia locale e mondiale, in assenza di un modello generale di riferimento.
Il passaggio dunque di cui oggi si riflette, dal concetto storico di ‘popolo-stato’ a quello di ‘moltitudine-globalizzazione’ produce una evidente ricaduta sui fondamenti del progetto: da una parte gli apparati solidi e permanenti dell’architettura, dall’altra la natura molecolare, ingovernabile e interstizi aIe del design e del mondo degli oggetti. Non si tratta di una disputa disciplinare né di un conflitto accademico: si tratta di cominciare a confrontarsi con la storia attuale, con le opzioni presenti sul campo. La politica nasce da queste radici, dal realismo e dalla fantasia.